La Cina immobile. Eppur si muove in circolo virtuoso
Il Celeste Impero alle soglie del 2000
20/03/1992 05:59:00
dal nostro inviato FELICE DE SANCTIS - PECHINO — La Repubblica popolare cinese è in marcia verso il Duemila. Sarebbe più esatto dire è in corsa, visti i risultati economici ottenuti negli ultimi 12 anni, dopo i 20 anni di ritardo, perduti da Mao ad inseguire un’utopia egualitaria più facile da predicare, che da realizzare. Il vecchio Deng Xiaoping, invece, ha puntato tutto sulle riforme, mantenendo la «stabilità» (leggi dittatura) politica e la Storia finora - alla luce del dissolvimento dell’impero sovietico - sembra dargli ragione. La tesi ufficiale è che un efficace sviluppo economico non possa prescindere da un clima sociale e politico tranquillo e che soltanto una riforma politica costante possa garantire la stabilità politica. E’ il circolo virtuoso su cui scommette la Cina. UNA CRESCITA... GIAPPONESE Le cifre del boom cinese, se confrontate con quelle degli altri Paesi comunisti dell’Est, possono considerarsi... giapponesi: dal 1980 all’88 la media del tasso di sviluppo del Paese è stata del 10%, nel solo ‘90 del 5%, nel 91 del 7%, superiore alle stesse previsioni che indicavano un tasso del 4,5% (nei Paesi occidentali è oscillata, invece, appena dal 2 al 3,5%). La crescita industriale ha raggiunto il 13,2%, anche in questo caso più che raddoppiando le previsioni (6%). Sarebbe stata addirittura superiore se le autorità non fossero intervenute con meccanismi di raffreddamento per frenarla, evitando un surriscaldamento dell’economia, che potesse riportare il Paese agli elevati tassi di inflazione di alcuni anni fa. Bisogna, però, considerare che molti beni sono rimasti invenduti o sono invendibili (il 10-15% dei manufatti è inutilizzabile, mentre non più di un quinto delle merci può essere giudicato di buona qualità). UNA DIVERSITÀ OSTENTATA. «Il merito della crescita va tutto alla stabilità di cui gode la Cina - ha affermato il premier Li Peng - in contrasto con il disordine di altri Paesi». Il riferimento è a quelli comunisti dell’est europeo. In realtà, si tratta di una, sicurezza solo apparente, che nasconde il timore di fare la stessa fine degli altri. Ecco perché il controllo del dissenso che, ufficialmente viene definito «meno drastico» per evitare le critiche occidentali, in pratica si sta irrigidendo: il governo ha escluso qualsiasi ipotesi di amnistia per i responsabili della rivolta di Tienanmen, respingendo anche la richiesta di osservatori internazionali di visitare le prigioni dove sono rinchiusi i protagonisti di quei tragici giorni. Tutti i giornali e la televisione di Stato tendono ad enfatizzare i risultati positivi del regime di Pechino, per dimostrare l’errore dei «fratelli» che hanno ripudiato il comunismo: «I governi cadono come pere mature, inflazione e debito estero aumentano e la produzione va a picco», questa è l’analisi dell’agenzia ufficiale «Nuova Cina», che cerca di spiegare il crollo di quei regimi come un’applicazione sbagliata del socialismo. «Le cose non vanno meglio nel settore economico con le privatizzazioni e l’adozione del libero mercato - aggiunge l'agenzia - le statistiche dimostrano che nei primi dieci mesi del ‘91 la produzione è diminuita del 45-50% in Albania, di oltre il 30% in Bulgaria, del 32% in Cecoslovacchia, del 20% in Ungheria, del 19,4% in Romania e del 12% in Polonia». Tutto il contrario di ciò che avviene in Cina, dove i mercati sono ben forniti e il potere d’acquisto della popolazione è in aumento. «Qui i prodotti di qualsiasi genere non mancano», mi spiega un dirigente cinese. LO STATO SCONFITTO DAL PRIVATO. In realtà la riforma dell’economia continua, malgrado i tentativi dei falchi del regime di frenare lo sviluppo, cacciando gli innovatori come Zhao Ziyang, arrestato dopo Tienanmen. Ma oggi sono stati costretti ad invertire la marcia: il settore produttivo privato, infatti, accumula profitti, mentre quello statale cresce meno e in molti casi è indebitato: nell’89 sono state tenute a galla da un’iniezione massiccia di fondi e a malapena hanno raggiunto un tasso di sviluppo del 2,9%. Le imprese collettive, invece, hanno toccato il 9%, quelle rurali il 12,5%, le private il 21,6% e le joint-ventures, le società miste con gli stranieri, addirittura il 56%. Nonostante il varo dell’ennesimo piano quinquennale 1991-95, il mercato dimostra di funzionare molto meglio. E il timore di esplosioni di malcontento costringerà il regime ad accelerare le riforme, anche se restano sempre aspri i conflitti tra ortodossi e innovatori. Per coprire il debito pubblico e immettere il risparmio privato nel ciclo produttivo le autorità hanno dovuto favorire strumenti capitalistici come le borse valori e le obbligazioni in valuta estera. La Borsa di Shanghai, ad esempio, non conosce il segno negativo. Da quando è stata istituita il 19 dicembre del ‘90 l' indice è passato da 100 a 250 e la domanda locale (agli stranieri non è ancora permesso acquistare) è sempre elevata per poche decine di emissioni. UN POPOLO NEI CAMPI. E’ soprattutto nell’agricoltura che la Cina ha operato una svolta di 180 gradi, passando dal sistema collettivistico delle comuni a quello della responsabilità: lo Stato continua a possedere i campi e il contadino ha in affitto una parte di terreno a lui assegnata. Una volta prodotta la quota dello Stato (un tempo chiamata «rendita del proprietario»), il resto è suo e può venderlo al mercato libero. Questo incentiva la produzione, perché stimola il profitto. Negli ultimi anni è stata abolita anche la quota fissa di cereali da consegnare allo Stato, sostituita da contratti individuali, estesi fino a 15 anni e il diritto alla permuta e compravendita dei terreni ottenuti. Questo sistema ha permesso una crescita record: dal 1979 al 1986 la produzione è aumentata in media del 12% all’anno, mentre fino al ‘79 non aveva mai superato il 3%. Un successo, che però non ha frenato la tendenza, ancora limitata, dei contadini a trasferirsi nelle città. Il governo cerca di scoraggiarla. A resistere sono soprattutto i più giovani, per i quali la prospettiva di tornare nei campi è disarmante: li attende un lavoro duro e spesso con direttive che cambiano continuamente. Altri, invece, delusi della vita di città o di un lavoro che dà un reddito inferiore, scelgono la strada del ritorno alla terra. Il boom agricolo, seguito dalla liquidazione delle comuni e ai contratti che assegnavano la terra ai contadini tiene ancora legati alla campagna molti cinesi. Ad incrementare la popolazione agricola, poi, sta contribuendo l’esercito con la riduzione del suo organico di un milione di uomini. E i giovani figli di contadini fanno salti di gioia quando vengono congedati, perché oggi nelle campagne si guadagna di più che in divisa: è una specie di controesodo nelle campagne. I SIGNORI DELLA GUERRA. La situazione degli ultimi anni si è praticamente ribaltata. Nella Cina dei «signori della guerra», infatti, essere arruolato era un privilegio che i figli dei contadini sognavano. Anche dopo la guerra di liberazione di Mao, entrare nell’esercito che aveva fatto la «Lunga marcia», rappresentava una garanzia per il futuro: vitto e abiti assicurati, una vaglia mensile che permetteva al soldato qualche economia, anche se la «decade» consisteva in poche centinaia di lire. Ma era un’alternativa alla misera vita del villaggio rurale e apriva la strada ad una buona carriera per i più bravi, oltre a permettere loro di imparare un mestiere di autista o meccanico, ancora oggi molto ambiti e ben retribuiti. L’esercito è sempre stato un altro luogo di privilegi, che ora appaiono ridotti di fronte all’accresciuto benessere generale della popolazione. Il partito, infatti, attraverso l’esercito ha sempre controllato il popolo: «Il potere nasce dal fucile», diceva Mao. E il comando dell’esercito è stato sempre il perno del potere, dagli imperatori a Tienanmen. Un’altra prerogativa dei militari, inoltre, è quella di possedere proprie fabbriche e fattorie in cui producono e coltivano i loro beni di consumo. Ma il vantaggio maggiore è quello che attraverso l’esercito è possibile entrare nei ranghi del partito e quindi negli uffici pubblici: università, fabbriche e uffici, hanno la maggiore quota di membri del partito. La strada per raggiungere migliori condizioni di vita è lunga. I cinesi devono ancora lottare molto. «I cinesi sono ancora in lotta - scrive Theodore White, grande giornalista americano di Time, autore di molti libri sulla Cina —. Hanno lottato contro i giapponesi e ancora li odiano. Hanno lottato contro le idee sovietiche e le hanno ripudiate. Hanno lottato contro la barbarie del loro governo e dei loro capi, eliminandone molti. Oggi la lotta è contro la realtà delle loro stesse immense dimensioni, contro i limiti della loro arretratezza». La Gazzetta del Mezzogiorno – 20.3.1992 - 4. Continua
Felice de Sanctis
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