Crisi, Molfetta non è più un’isola felice, un credito avaro la sta soffocando
UNA CRISI PROFONDA. Il boom dei centri commerciali ha seminato illusioni e precariato. Il sociologo Palmisano: bisogna ricostruire un tessuto comunitario
12/05/2012
Un suicidio è sempre un evento drammatico, che nasconde una tragedia umana, ma cercare di comprendere le ragioni che sono alla base di questi gesti disperati, può essere utile ad evitare che questi episodi si ripetano.
Anche Molfetta non è un’isola felice nello scenario critico della situazione economica depressiva, tutte le aziende devono fare i conti ogni giorno con i problemi di competitività, con la stretta creditizia e soprattutto con la carenza di liquidità. Proprio quest’ultimo fattore, unito ai ritardi nei pagamenti da parte dello Stato e degli enti pubblici, è stato l’elemento scatenante della tragedia di ieri. I piccoli imprenditori sono coloro che avvertono di più sulla propria pelle la grave congiuntura economica e hanno difficoltà a far fronte agli impegni verso i fornitori, anche perché non gira denaro e si accumulano i debiti.
Le imprese che rappresentano il tessuto produttivo di Molfetta sono divise tra fra il 35% nel commercio; il 17% nell'edilizia; il 14% nella pesca e agricoltura; l'11% nell'artigianato e industria. Complessivamente, l'industria e l'edilizia prendono il 28% del numero delle imprese, dunque un dato inferiore al commercio per via della presenza degli outlet. Si tratta, in non pochi casi, di imprese piccole, soggette alla crisi più delle altre.
I redditi prodotti si aggirano intorno ai 12.000 euro netti pro capite, a fronte di una spesa individuale di circa 11.600 euro, dunque c'è una scarsa propensione al risparmio, fatto che incute timore in questa fase di crisi, come rivela un’indagine condotta sul territorio dal sociologo Leonardo Palmisano.
I redditi sono cresciuti negli ultimi 10 anni, ma si sono concentrati nelle mani di meno di un quarto della popolazione molfettese. Si è allargata la forbice tra ricchi e poveri. Se a questo si aggiungono i redditi non dichiarati, ci troviamo di fronte ad una situazione abbastanza negativa.
Il tasso di occupazione nell’area è più basso di quello italiano di ben 10 punti percentuali, fatto che deve far riflettere; nello stesso tempo la disoccupazione registrata nel 2011 era di quasi il 12%. Nello stesso periodo, c'erano circa 13mila addetti nei servizi e solo 4.700 nell'industria. Questo conferma che l'industria a Molfetta è in crisi, e lo è da tempo. S'insinua il sospetto che circoli denaro non dichiarato, provento di imprese non registrate o che evadono le tasse. Tutto questo non produce un'economia sana e regolare.
Questa è la fotografia della situazione economica, che non è certo aiutata dalla presenza nell’area industriale di grossi ipermercati come l’Outlet Fashion District e la Mongolfiera sui quali era stata riposta la speranza di occupazione da parte della gioventù locale, ma che ha prodotto solo lavoro precario, drenando denaro solo a vantaggio delle aziende del Nord e lasciando le briciole al territorio. Non c’è stata una ricaduta sociale, soprattutto perché si tratta di lavori stagionali o interinali. L’unica fonte di reddito per i giovani molfettesi è diventata il lavoro al call center (oltre 1.500 addetti), precario e a livello di quasi sfruttamento, con grosse difficoltà di stabilizzazione. Ma oggi portare a casa anche 5-600 euro al mese, specie se anche i genitori hanno perduto il lavoro o sono in cassa integrazione, significa per molti giovani già un grosso risultato. Insomma, la logica del bisogno la fa da padrone.
Tutti i piccoli imprenditori oggi fanno sempre più ricorso alla cassa integrazione e alla mobilità, ma la situazione è peggiorata, come conferma Giuseppe Filannino, segretario locale della Cgil, a causa della decisione del governo Monti di aumentare l’età pensionabile, che non permette più a sindacati e aziende di concordare un’uscita soft dal mondo del lavoro per gli ultacinquantenni accompagnandoli alla pensione. Si è creata, così una situazione peggiore di quella degli esodati, perché terminati i 3-4 anni di cassa straordinaria e di mobilità, per questi lavoratori si apre il vuoto di molti anni senza reddito fino alla pensione e soprattutto senza contributi, per cui ci si ritroverà alla fine con rendite insufficienti per vivere.
In alcune aziende si è arrivati perfino a non pagare per 5 mesi i dipendenti per favorire poi le dimissioni volontarie che permettono di prendere almeno l’indennità di disoccupazione.
La grande crisi dell’edilizia ha fatto il resto, per cui anche l’indotto piange e perfino andare a fare la stagione a Bolzano, che una volta permetteva a muratori, piastrellisti, falegnami di portare a casa 1.200 euro in busta paga e altrettanti in nero, non è più conveniente. Infatti i datori di lavoro sono terrorizzati dalle possibili ispezioni fiscali e hanno ridotto perfino le retribuzioni base. E alla fine il sindacato si ritrova nella paradossale situazione di difendere l’imprenditore perché il suo fallimento significherebbe la perdita di ulteriori posti di lavoro.
Anche il commercio attraversa una crisi profonda, come ci conferma Marcello D’Aniello, presidente di Molfetta Shopping, una delle organizzazioni di categoria. L’arrivo della grande distribuzione ha dato il colpo finale al commerciante al dettaglio che oggi è con l’acqua alla gola. I negozianti si sentono soli e abbandonati, non si sentono garantiti dall’amministrazione comunale («hanno occhi e orecchie chiusi») che, a loro parere, non è riuscita a garantire una integrazione tra commercio locale e grande distribuzione. Oggi Corso Umberto, una volta salotto della città, è ridotto in stato pietoso: luci spente, verde distrutto, panchine sgangherate, sporcizia. E si vedono sempre più saracinesche abbassate, anche per gli alti costi degli affitti: i proprietari preferiscono tenerli sfitti, piuttosto che ridurre i prezzi. L’amministrazione comunale insegue il progetto del mega porto commerciale, che ha già accumulato forti ritardi ed è a rischio di completamento anche per i tempi lunghi necessari allo sminamento del bacino portuale. Oltretutto la grande opera difficilmente potrà creare molti posti di lavoro e rischia di rivelarsi una cattedrale nel deserto.
E’ in questo scenario depressivo che è maturato il suicidio dell’imprenditore 46enne Giuseppe Rennola. La stessa associazione degli imprenditori barese ha difficoltà ad affrontare il problema e perfino a parlarne, come conferma Michele Vinci presidente di Confindustria Bari: «Temiamo l’effetto emulazione e vogliamo evitare rischi di questo genere. Fidindustria Puglia ha attivato un numero verde per queste situazioni, ma il momento è difficile di fronte alla stretta creditizia e ai mancati pagamenti dello Stato». Forse da parte dell’organizzazione degli imprenditori si dovrebbe studiare qualcosa di più concreto, proprio per evitare che situazioni drammatiche possano allargarsi.
La soluzione? Al di là delle ricette economiche che, comunque, risentono della situazione internazionale, una strada da percorrere, secondo il sociologo Leonardo Palmisano, è quella di ricostruire un tessuto comunitario, in una società sempre più fragile priva di una rete di protezione sociale. A scatenare il malessere è anche la incapacità di adeguarsi alla nuova rigidità fiscale e alle trasformazioni in atto nella società, che accrescono l’isolamento e la disaggregazione sociale, mentre servirebbero centri di ascolto con la possibilità di condividere i problemi con gli altri. Il forte individualismo del settore imprenditoriale pugliese non aiuta e le associazioni di categoria non contribuiscono a creare aggregazioni, questo ha come conseguenza che anche il lavoratore, essendo precario ha difficoltà a sentirsi legato all’azienda, con il continuo timore di perdere il posto di lavoro. Bisogna tornare anche al concetto di responsabilità sociale dell’impresa, abbandonando la cultura del consumo a favore di quella della comunità.
La Gazzetta del Mezzogiorno 12.5.2012 – Bari Primo Piano
Felice de Sanctis
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