L'Ilva di Taranto, la fabbrica che cambiò la storia del Sud
Un saggio del pugliese Onofrio Bellifemine (il Mulino) ricostruisce il lungo e tormentato processo decisionale che portò alla nascita del siderurgico jonico segnando una nuova epoca per l'intervento statale nel Mezzogiorno
14/05/2018

FELICE DE SANCTIS Oggi, a quasi 60 anni dalla sua nascita (la posa della prima pietra risale al 9 luglio 1960), il grande stabilimento siderurgico di Taranto è noto soprattutto per le interminabili vicende giudiziarie che lo vedono protagonista e per le roventi controversie ambientali sulla sostenibilità della sua produzione. Eppure questo colosso da 15 milioni di metri quadrati, più del doppio della stessa città, la più grande fabbrica manifatturiera d'Italia per numero di dipendenti diretti (oltre gli 11.000) e il 2° maggiore impianto a ciclo integrale d'Europa, dopo quello di Duisburg della Tyssen Group, ha una lunghissima storia, gloriosa e tormentata allo stesso tempo che si inserisce in un ben preciso momento politico, sociale ed economico del nostro Paese. Lo racconta bene un giovane storico, il pugliese Onofrio Bellifemine, docente di Storia dell'Italia contemporanea all'Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia, nell’assai ben documentato saggio Una nuova politica per il Meridione. La Nascita del quarto centro siderurgico di Taranto, pubblicato dal Mulino con la prefazione di Giorgio Vecchio. Un libro che con intelligenza ricostruisce un momento ben preciso della vita del grande stabilimento tarantino: la sua nascita. Bellifemine infatti, esamina da vicino la formazione del processo decisionale che porta lo Stato italiano a impegnarsi direttamente nella realizzazione di un processo così ambizioso. Ispiratore del centro è l'economista Pasquale Saraceno e gli uomini dell'associazione Svimez convinti sostenitori dell'industrializzazione dell'Italia meridionale guidata dallo Stato come soluzione alla questione meridionale. Il progetto che si inserisce nel momento di grande espansione dei consumi di acciaio del Paese, è sostenuto apertamente dalla Democrazia Cristiana a partire dal 1956 e in seguito da tutte le forze politiche e invece convintamente osteggiato dall'impresa pubblica, Finsider in testa che vede messa a repentaglio l'autonomia imprenditoriale del gruppo e i propri equilibri economici e che soprattutto denuncia la sconvenienza strategica dell'operazione (lo stabilimento è lontano dai maggiori centri industriali del Paese e questo comporterebbe un aggravio dei costi per le operazioni di trasporto dell'acciaio). Come ci ricorda nella sua prefazione Giorgio Vecchio il dilemma era: «investire in un progetto rischioso, ma dalle sicure ricadute positive sulla popolazione, oppure stingere i cordoni della borsa e garantire la solidità dei conti?». Il lungo braccio di ferro che viene ovviamente vinto dalla «nuova» Dc di Fanfani che nell'estate del '59 riesce a imporre la realizzazione del progetto alla riottosa dirigenza pubblica, ha come contesto lo spettacolare boom economico che vede il nostro Paese tra il 1958 e il 1963 occupare i primissimi posti tra le potenze economiche mondiali. Non mancano retroscena clamorosi: come il tentativo da parte del governo italiano (con la regia del deputato democristiano di Taranto Raffaele Leone) di coinvolgere nel progetto colossi dell'impresa privata tedesca o americana e dei tentativi di inserimento di città come Reggio Calabria e Brindisi che cercano di «scippare» a Taranto lo stabilimento. Ben sviluppata è infine l'analisi della nuova classe dirigente democristiana pugliese che all'ombra di Aldo Moro sostiene apertamente la strada dell'industrializzazione. Si tratta di uomini come i baresi Vito Lattanzio, Vitantonio Lozupone, Giuseppe Giacovazzo (tra le altre cose indimenticato direttore della Gazzetta del Mezzogiorno) o i tarantini Raffaele Leone, Mario Mazzarino, Angelo Monfredi. Politici che hanno segnato una stagione politica ed economica assai complessa e articolata e che è bene riprendere a studiare in modo serio e ragionato per comprenderne luci e ombre, anche attraverso contributi brillanti come quelli di Bellifemine. La Gazzetta del Mezzogiorno – Pagine cultura 14.5.2018

Felice de Sanctis
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